Pastore del Lagorai e della Lessinia

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Qual è la storia del Pastore del Lagorai e da dove deriva questo cane? Oggi vi portiamo alla scoperta di questa razza speciale, nel cuore di tutta la famiglia del Pineta grazie a Menta.

La nostra cagnolina, spesso presente nelle gite con zio Livio, è proprio un Pastore del Lagorai, di cui adesso potrete saperne molto di più.

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Cane da pastore della Lessinia e del Lagorai

Il Cane da pastore della Lessinia e del Lagorai (detto anche semplicemente “Pastore del Lagorai”, “Pastore della Lessinia” o “Pastore della Val d’Adige” o cane baio nel gergo dei pastori o “Pastore mòcheno”), è un’antica razza canina italiana riconosciuta dall’Enci il 24 giugno 2020 con attivazione del Registro Supplementare Aperto, atto all’iscrizione di soggetti appartenenti a popolazioni tipiche italiane in fase di recupero e conseguentemente all’emissione di certificati RSA.

Da sempre è stato utilizzato nelle attività pastorali e di conduzione del gregge nelle aree montane del Nord-Est d’Italia (Lombardia orientale, Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia), e per l’annuale transumanza del bestiame dalle montagne al mare e viceversa, attraverso le pianure del Triveneto.

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Pastore del Lagorai, la storia

Come molte razze locali, vanta antenati antichissimi. Prove dell’esistenza di cani paratori nella conduzione di ovini e caprini nelle Alpi italiane risalgono infatti all’epoca neolitica.

Discendenti dall’antico cane che probabilmente giunsero sull’arco alpino al seguito delle migrazioni di popolazioni nomadi provenienti dalla Paflagonia attraverso le Alpi orientali.

Popolazioni che a loro volta avevano avuto conoscenza delle tecniche di allevamento degli animali domestici e dal cane dai Natufiani.

Le esportazioni a partire dal sec. XVIII in tutta Europa della pecora di razza merinos a partire dalla penisola iberica, unitamente a cani conduttori spagnoli, hanno influenzato quasi tutte le etnie canine pastorali locali europee, in particolare quelle francesi e tedesche.

Ceppi di cani conduttori sono stati quindi importati nel triveneto italiano dalle terre tedescofone attraverso le migrazioni trentine, da cui il nome di pastore mòcheno.

Il Pastore della Lessinia e del Lagorai è ancora allevato in prevalenza come ausiliario per il lavoro nelle malghe e nelle aziende agro-pastorali; ciò ha consentito di preservare intatte le sue doti naturali, che lo rendono un cane rustico, di ottima costituzione e salute, esente dalle principali patologie ereditarie.

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È in corso un progetto di recupero, valorizzazione e salvaguardia dalla sua estinzione promosso dalla Società Italiana Pastore della Lessinia e del Lagorai che ne ha curato il riconoscimento ufficiale presso l’Ente preposto a partire dal 2016.

Nel 2018 si è tenuto a Fara Gera d’Adda (BG) il primo e più grande raduno della razza ufficialmente autorizzato dall’Enci.

Descrizione

Ha aspetto tipicamente lupoide, mesomorfo, di taglia media e agile, con grandi orecchie triangolari generalmente portate erette, ma anche semi erette o cadenti. Il pelo è semi lungo con folto sottopelo, il mantello è generalmente nero, marrone o merle (macchie grigio nere o fulve su fondo grigio o bianco, e dai caratteristici contorni irregolari) anche con ampie chiazze bianche.

Ha temperamento vivace, curioso, di spiccata docilità, lo distinguono la notevole resistenza fisica e le doti nel salto di ostacoli naturali.

È un inesauribile camminatore e infaticabile lavoratore specializzato nella conduzione di bestiame ovino, ma all’occorrenza anche bovino ed equino.

Storia della razza

Come testimoniato delle incisioni rupestri e dalle decorazioni sui manufatti in lamina di bronzo (situle), l’antico popolo veneto (Venetici o Paleoveneti), insediatosi nell’Italia nord-orientale dopo la metà del II millennio a.C. conosceva già il cane da conduzione, forse proprio l’antico ed estinto Cane da Pastore delle Alpi, probabile progenitore comune a più di una razza canina da pastore.

Si tratta di cani di tipo lupoide, dalla coda arricciata e dal tipico atteggiamento del cane da conduzione, destinato ad accompagnare uomini intenti al governo degli animali domestici. Peculiarità dei Paleoveneti infatti erano, accanto alla lavorazione dei metalli, l’allevamento del bestiame, in particolare di cavalli apprezzati anche da greci e latini, e la produzione e lavorazione della lana sotto forma di pregiati tappeti, coperte e mantelli.

Fin da subito le zone montane si erano distinte da un allevamento transumante a frequentazione stagionale. Questi antichi abitatori del Veneto ebbero origine nella Paflagonia, antica regione costiera dell’Anatolia centro-settentrionale.

I miti classici da sempre li identificano come di stirpe illirica, ramo occidentale delle popolazioni indoeuropee, giunti nelle terre comprese tra il Lago di Garda e i colli Euganei dai Balcani. Omero cita gli Eneti perfino come guerrieri al fianco dei Troiani contro gli Achei di Agamennone.

Da notare che in Turchia, in particolare, è stato rinvenuto quello che a oggi risulta il più antico insediamento di contadini in Anatolia. Accanto a varietà vegetali coltivate, sono state identificate numerose ossa di pecore e capre, maiali e diversi esemplari di cani dalla taglia media.

Con buona probabilità la Storia ci dice che la conoscenza dell’allevamento domestico e le tecniche agricole giunsero in Anatolia, come in Mesopotamia e in Oriente, attraverso ondate migratorie successive provenienti dalle coste orientali del Mar Mediterraneo, forse proprio dalla zona del Levante nella quale risultano le più antiche tracce di pastorizia semi-nomade, e domesticazione e utilizzo del cane attualmente comprovate con buona certezza.

Dunque le origini dell’agricoltura, dell’allevamento e del cane in Italia nord-orientale non solo si perdono nella notte dei tempi, ma probabilmente hanno provenienza quasi diretta dalla culla delle pratiche agricole e zootecniche.

Nelle zone della Lessinia poi, ad esempio, si hanno tracce dello sfruttamento pastorale fin dal Neolitico, con pastori che trascorrevano parte dell’anno in alta montagna. Più recentemente, per tutto il Medioevo una infinità di testamenti, donazioni, documenti imperiali, inventari testimoniano il ruolo chiave della produzione e della lavorazione laniera nel Triveneto.

Nell’anno 810 ad esempio, un documento del monastero di S. Zeno attesta l’esistenza di un Follonis, ovvero di un macchinario a energia idraulica per l’infeltrimento dei panni presso Caprino Veronese che risulterebbe la più antica prova dell’esistenza di un meccanismo del genere in tutta Italia. Verona, grazie anche alla fibra della pecora di Brogna, era in grado di fare concorrenza alle lane inglesi e fiamminghe.

Gli altipiani Lessini, quello di Asiago, il monte Baldo, il bellunese rifornivano di lane e prodotti caseari anche Padova, Trento, Vicenza, Rovigo. Numerosi sono i documenti d’archivio che, a partire dal 1285, ci permettono di seguire i pastori della valle lungo le vie di trasferimento delle greggi nel Triveneto: parlano di dazi da pagare ai vari confini e di privilegi concessi per permettere alle pecore di svernare nella pianura veneta, friulana e ancor più lontano. E per ultimo anche dentro ai confini dell’Impero Austro-Ungarico.

In un territorio in cui si affiancavo alle necessità di spostamento di greggi che contavano migliaia di capi il rispetto delle colture agricole l’impiego del cane da conduzione fu insostituibile. Millenarie e continui spostamenti portarono a scambi reciproci di materiale genetico tra i cani preesistenti e altre etnie canine confinanti o più lontane, materiale che si sovrapponeva a quello esistente creando un patrimonio zootecnico sempre più particolare e che l’ambiente e la cultura pastorale raffinarono sottoponendolo a una dura selezione migliorativa e conservativa.

Al pari infatti di molti altri tipi genetici (come la mucca Burlina, la Redena o la Grigia Val d’Adige, la pecora di Brogna, Lamon, Foza, l’Alpagota, la Tingola, la Plezzana, la Carsolina o la capra Mochena), o culturali rappresentati dalla lingua e dalle tradizioni cimbre, le particolari caratteristiche fisiche del territorio triveneto, come una vera e propria isola zootecnica, hanno permesso la conservazione in quasi totale incontaminazione delle caratteristiche di questa “razza”.

Un cane che tuttora, in alcune migliaia di esemplari, pratica al fianco dei pastori, nelle fattorie, nelle aziende rurali, negli allevamenti anche stanziali, ovunque vi siano animali da reddito da radunare, custodire, spingere, scortare. Affiancandosi nel collettivo all’immagine tradizionale del pastore con il suo gregge al pascolo, facendosi altrettanto veicolo di trasmissione non solo di un tesoro zootecnico che non ha eguali, ma anche di un patrimonio culturale che rischia l’oblio.

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